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Newsflash Napoli

Napoli: Serie b2 maschile girone g

Esordio vincente per il Rione Terra Pozzuoli Volley che espugna il campo della Virtus Tricase Volley nella prima di campionato di serie B2. La squadra di coach Costantino Cirillo è stata fin dall'inizio attenta e non ha lasciato scampo agli avversari determinata di centrare il successo. L'1-3 come risultato finale lascia ben intendere cosa i gialloblù hanno speso sul parquet in terra pugliese. Il primo set è equilibrato con il Rione Terra che riesce a mettere a terra nel finale i punti decisivi vincendolo per 21-25.

Newsflash Ischia

Ischia: Per la prima volta all'isola d'ischia il servizio di Ischiawifi internet e telefonia Voip 24/24. Call Center 19301328

Ischia Wifi è un servizio di connettività Internet e telefonia VoIP, messo a disposizione dell’utenza tramite WADSL (Wireless ADSL). L'azienda nasce da un accurato studio ed esperienza del mercato wireless in tutti i suoi aspetti più ragionevolmente conosciuti come la diffusione di Internet ad alta velocità (banda larga) in ambienti circoscritti che siano aperti, come valli, comuni o intere città, oppure per ambiti più ristretti come piazze, locali, attività ricettive e commerciali fino ad arrivare a fornire un servizio di tipo residenziale con inclusa telefonia VoIP.

Newsflash Capri

Capri: Capri watch, domani a Napoli cocktail con Veronica Maya per Millefiori triplo brindisi per il brand che inaugura cosi' il primo flagship store partenopeo

Triplo brindisi per Capri Watch domani sera a Napoli con Veronica Maya, testimonial femminile del brand e madrina dell’evento con cui l’azienda di orologeria glamour in un colpo solo festeggerà con i suoi fedelissimi il Natale ormai alle porte, certo, ma anche due eventi molto attesi da tutti i suoi fan: l’inaugurazione del primo flagship store partenopeo, in piena via Filangieri, e la presentazione in anteprima della nuovissima collezione “Millefiori” con cui l’azienda intende accompagnare le ore dei trend addicted internazionali per tutto il 2015.

Newsflash Casamicciola

Casamicciola: Sabato 5 luglio 2014 alle ore 11 al Capricho de Calise in Piazza Marina di Casamicciola Terme, su invito del Sindaco Giovan Battista Castagna

si incontreranno i Sindaci dei Comuni delle isole Ischia,Procida e Capri
ed il Sindaco di Napoli, nella qualità di prossimo Sindaco dell’Area Metropolitana,
per confrontarsi sul da farsi per dare assetto e dignità al trasporto marittimo.

Newsflash Roma

Roma: Vasto Film Fest XX edizione

Mercoledì 5 agosto 2015 – ore 11
Centro Sperimentale di Cinematografia - Cineteca Nazionale
Via Tuscolana 1524, 00173 Roma
Interverranno:
Luciano Lapenna – Sindaco Comune di Vasto
Vincenzo Sputore - Vice sindaco e Assessore con delega al turismo e cultura Comune di Vasto
Michele D’Annunzio – Dirigente settore turismo e cultura Comune di Vasto
Marcello Foti - Direttore Generale del Centro Sperimentale di Cinematografia
Gabriele Antinolfi - Direttore Cineteca Nazionale
Daniela Poggi – Conduttrice Vasto Film Fest
Stefano Sabelli – Direttore artistico Vasto Film Fest

Isola News

Siamo nel bel mezzo di una guerra Atomica ??? No Pandemica ... Covid19

Siamo nel bel mezzo di una guerra Atomica ??? No Pandemica ... Covid19

Piu' passa il tempo piu' ci si rende conto della situazione tragica, un'altra tipo di guerra e' scoppiata possiamo definirla "quella batteriologica denominata Covid19", c'era da aspettarselo. Dopo le prime due guerre mondiali che ci hanno colpito e' arrivata una pandemia mai immaginabile con copertura totale del mondo. Mi domando e dico dove andremo a finire. Partito dalla lontana Cina si e' sparsa in un batter d'occhio ovunque nel mondo.

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InternationalNews - Cultura
Scritto da Daniela Lombardi   
Martedì 09 Ottobre 2012 19:35

International: Gladis Alicia Pereyra, la scrittrice argentina dal cuore italiano conquista l'Australia

A GLADIS ALICIA PEREYRA
l’ambito  premio letterario mondiale  di Alias, Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori, patrocinato dal  Consolato generale italiano di Melbourne, dall’istituto italiano di cultura, supportato dal Victorian Multicultural Commission del comune di Moonee Valley e patronato da Inca-Cgil, pr la sua opera “Il suicidio”.

Grande l’emozione per questa straordinaria scrittrice, appassionata di storia, autrice dello stupendo romanzo “Il cammino e il Pellegrino” ambientato in una Florentia del ‘200, nell’apprendere che la sua suggestiva scrittura è stata apprezzata e premiata anche nella lontana Australia. Per lei partita dall’Argentina per arrivare nella patria dei suoi nonni, l’Italia, questo è stato un traguardo che la consacra una scrittrice a livello mondiale.
Nel suo cassetto già due opere in sapore di pubblicazione: una serie di racconti incentrati sulla donna e un altro stupendo romanzo storico. L’autrice, grazie alla sua innata fluidità letteraria, riesce a rendere attuale e appassionate ogni momento storico da lei descritto  perché l’amore e i sentimenti degli uomini non hanno collocazione temporale, ma vivono dentro di noi e lei ci insegna a scovarli e a viverli.
Dall’opera vincitrice:
“Le luci; di quella serata ricordava le luci ondeggianti delle candele sui tavoli e la larga distesa  luminosa della città che ai margini si arrampicava, diradando, per le colline. Si stava bene sul terrazzo di quel ristorante, discreto, elegante; Marcello le aveva chiesto di sposarlo mentre i camerieri scivolavano silenziosi fra i tavoli. Due anni dopo lui era andato via. Le aveva detto che doveva riflettere, che il loro matrimonio restava sospeso. Aveva detto proprio così: sospeso. L’erogazione di sentimenti era momentaneamente sospesa, fino a che i guasti fossero riparati. Anche lei era rimasta sospesa, sospesa al chiodo del suo stupore, della sua sofferenza, delle domande cui non aveva trovato risposte. Ma ormai tutto ciò non aveva importanza……”
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Il  SUICIDIO
Le luci; di quella serata ricordava le luci ondeggianti delle candele sui tavoli e la larga distesa  luminosa della città che ai margini si arrampicava, diradando, per le colline. Si stava bene sul terrazzo di quel ristorante, discreto, elegante; Marcello le aveva chiesto di sposarlo mentre i camerieri scivolavano silenziosi fra i tavoli. Due anni dopo lui era andato via. Le aveva detto che doveva riflettere, che il loro matrimonio restava sospeso. Aveva detto proprio così: sospeso. L’erogazione di sentimenti era momentaneamente sospesa, fino a che i guasti fossero riparati. Anche lei era rimasta sospesa, sospesa al chiodo del suo stupore, della sua sofferenza, delle domande cui non aveva trovato risposte. Ma ormai tutto ciò non aveva importanza, apparteneva a un altrove lontano nel tempo e nello spazio. Aveva voluto ricordare quella serata in cui era stata tanto felice, per non andar via a mani vuote. Si guardò le mani, erano abbandonate sul grembo con le palme rivolte all’insù, come se stesse pregando o elemosinando. Le lasciò stare, aveva pregato qualche volta a Dio, non agli umani e non aveva elemosinato mai. Questa era un’altra cosa buona da portare con sé. Ripassò mentalmente l’elenco delle cose fatte, pensava di non aver dimenticato nulla. Quindici giorni prima era stata dal notaio: l’appartamento lo lasciava a Roberta, anche la Peugeot comprata l’anno prima e tutti i gioielli, tranne quelli ereditati dalla madre e quelli ricevuti da nonna Chiara; quelli spettavano alla sorella. I soldi in banca e i buoni del tesoro a Roberta. I soldi le sarebbero serviti per pagare gli avvocati, perché Stefania avrebbe impugnato il testamento, avrebbe dato battaglia; rassegnarsi non era nello stile di sua sorella maggiore, con cui si era accapigliata fin dall’infanzia. Roberta si meritava quello e molto di più; lei era la sua vera sorella e, a differenza di Stefania che di soldi ne aveva fin troppi, si arrangiava come poteva con il suo piccolo stipendio; il padre della bambina non le passava un soldo, quel bastardo. L’eredità che le lasciava sarebbe stata una vera manna caduta dal cielo, avrebbe compensato ampiamente il dolore che le dava. A questo pensiero, sentì come una punzecchiata da qualche parte nella gola o nel petto. Roberta avrebbe sofferto, molto, e anche Camilla che la chiamava zia e cercava di imitarla, povera bambina, imitare proprio lei. Sentì che stava per commuoversi e pensò ad altro, anzi fece il vuoto nella mente. Rimasse così qualche istante, poi uno alla volta cominciarono a sopraggiungere pensieri che avrebbe voluto evitare, pensieri che le producevano un terribile senso di sconfitta e lei non voleva sentire tutto il peso della sua disfatta, quella sera no. Voleva essere serena, distaccata, già niente aveva importanza; girava le spalle alla vita perché non era atta a vivere, perché l’esistenza era una sorta di macigno che ogni mattina doveva caricarsi sulle spalle e lei voleva riposare. L’idea del suicidio aveva preso forma lentamente. Da qualche mese faticava a svegliarsi la mattina, non voleva lasciare il rifugio che ogni notte le offriva il sonno. Era un fatto nuovo, aveva sempre dormito poco e quando era più giovane andava a letto pensando al risveglio, alla mattina, il momento più bello della giornata. Si addormentava pensando alla doccia, allo yogurt, all’odore del caffè, alla giornata tutta da scoprire, tutta da vivere. E sì, l’idea di farla finita aveva fatto capolino proprio in quei momenti che prima erano colmi di promesse. Alzarsi, guardasi allo specchio gli occhi gonfi, i capelli arruffati, mettersi sotto la doccia e poi la colazione, la macchina e la casa editrice dove avrebbe voluto portare il libro che non riusciva a scrivere e invece andava ad affrontare le noie della redazione. La sua carriera di giornalista era stata un insuccesso, non era diventata il reporter che sognava e alla fine il giornale aveva chiuso e, al contrario di molti suoi colleghi che erano passati a testate più importanti o alla televisione, lei era rimasta semplicemente senza lavoro. Tirando le somme aveva capito in tutta onestà che non era il talento ciò che le mancava, era qualcos’altro. Lo aveva capito in quelle mattine in cui restava a lungo, sola con sé stessa, sotto le coperte; ciò che le mancava era la grinta per farsi spazio nella giungla della vita, era stata troppo ingenua, troppo convinta che la carriera si fa con il merito. Nella carriera si va avanti mordendo e calpestando e chi ha denti più aguzzi e piedi più pesanti ce la fa, anche se ha il cervello di un tafano. Lei forse aveva denti e piedi ma non sapeva usarli, anzi, non aveva mai voluto usarli e, quindi, non aveva imparato. Era stata la scoperta della sua inadeguatezza che aveva fatto nascere l’idea di prolungare il sonno per sempre. Se avesse scoperto di non avere talento si sarebbe rassegnata, si sarebbe accontentata di trascinare un’esistenza anonima, come la maggioranza dei mortali, senza sogni velleitari e sicuramente con più felicità. Questi pensieri non le fecero male come altre volte; diede uno sguardo al flaconcino di sonnifero che la bella abatjour illuminava con riflessi rassicuranti e lasciò che i pensieri se ne andassero come erano venuti. Si concentrò nuovamente su le cose pratiche da sbrigare prima di svuotare il flaconcino e distendersi sul letto a riposare, finalmente. Doveva stare attenta a non mettere la sicura alla porta d’ingresso, con la sicura avrebbero dovuto buttar giù la porta, non era il caso di far diventare il tutto più drammatico. Roberta aveva le chiave e avrebbe potuto entrare  senza dover chiamare i pompieri o la polizia. La polizia l’avrebbe chiamata dopo, era chiaro, come non ci aveva pensato prima. La polizia: “non toccate niente”, i fotografi, i vicini, Roberta con gli occhi sbarrati che andava dietro a tutti, senza ben capire se era sveglia o nel mezzo di un incubo. E lei sdraiata sul letto, in pasto alla curiosità morbosa, con il pigiama verde limone che le stava così bene, per questo lo aveva indossato, ultima civetteria. L’inevitabile prospettiva, a cui non aveva pensato, le sembrò terribile. E se Roberta avesse portato con sé Angelica? Angelica era la sua gatta che il giorno prima aveva lasciato in custodia all’amica fino al suo rientro da Torino; andava per due giorni al Salone del libro, così le aveva detto. Immaginò Angelica che saltava sul letto e cominciava ad annusarla come faceva spesso mentre lei dormiva, vide lo spavento dell’animale nel percepire quell’odore strano, orrendo, che non era l’odore della sua adorata padrona. Sentì lo sgomento della povera creatura, il suo miagolio straziante e l’emozione che l’assalì fu talmente forte che credete di soffocare e in cerca d’aria aprì la porta finestra e uscì d’impeto sul terrazzo. La ricevette un arietta fresca pregna di odori,  restò ferma spingendo con rabbia il singhiozzo giù per la gola finché si calmò, solo allora avvertì i profumi. Era maggio e le sue piante che esplodevano di fiori e germogli nei vasi le inviavano i loro messaggi. Lanciò uno sguardo circolare, non accese la luce, non ne aveva bisogno: senza vederle sapeva la posizione esatta di ogni pianta. Là, dove arrivava soltanto il primo sole, c’erano le camelie: l’Alba plena, la sua favorita, i cui meravigliosi fiori bianchi si erano aperti a marzo, accanto la Contessa Lavinia Maggi, ancora in piena fioritura e la profumatissima lutchuensis dai piccoli fiori, una rara specie botanica, le camelie in genere non profumano, c’era pure l’unico rododendro che era riuscita a far crescere in quel clima poco adatto. Nel lato dove batteva il sole tutto il giorno, aveva sistemato la sua collezione di centocinquanta succulente e le rose: la tenera Irene Wats, la Louis XIV e la Regina Vittoria e, dopo il gruppo delle aromatiche, il limone e l’arancio carichi di fiori, sostarvi accanto era una delizia, poi il calistemun, pieno di piumini rossi e in un angolo il Melia Azedarac, ormai un vero albero, piantato dentro una giara. C’erano tante altre specie, tutte ugualmente rigogliose. Quante cure dedicava alle sue piante, quanta fatica, quante unghie rotte e annerite quando travasava dimenticando i guanti, ma anche quante soddisfazioni. D’estate apparecchiava sul terrazzo, all’epoca in cui aveva ancora voglia di organizzare cene con gli amici e tutti restavano a bocca aperta, nessuno credeva che non avesse il giardiniere. Sorrise suo malgrado e andò a toccare le foglie dell’origano di Creta e si annusò le dita. La sua vita sarebbe ancora degna di essere vissuta se potesse trascorrere tutta intera su quel terrazzo. Tra i rami del cedro del Libano che cresceva nel giardino condominiale, spuntava la luna piena. Povera luna, così inutilmente splendente, ormai la sua luce era sommersa dal fulgore artificiale della città e nessuno la notava. Soltanto chi alzava gli occhi al cielo sapeva che era sempre là, ma quanti si ricordavano di guardare in alto? La sua luce si era ritirata nei boschi, nei sentieri montani, sui tetti delle case di campagna quando tutti dormivano, sul mare. Mise per terra un cuscino che prese da una sedia e vi sedette. Era serena, circondata dalle sue piante si rasserenava sempre. Da bambina, nelle notte di luna piena durante le estate passate nella casa di campagna,  lei e Stefania amavano giocare in giardino, tra le aiuole curatissime e gli alberi. A volte si buttavano supine sull’erba e restavano in silenzio a contemplare il cielo incredibilmente zeppo di stelle. Stefania conosceva le costellazioni e gliele indicava e insisteva perché anche lei imparasse a riconoscerle; lei guardava e diceva di sì, ma l’Orsa maggiore e l’Orsa minore non riusciva mai a distinguerle. Era attenta, invece, ai rumori della notte. I grilli, le rane nello stagno, il latrato di qualche cane in lontananza, il lieve stormire delle foglie, erano rumori talmente consueti che quasi no li percepiva; lei tentava di catturarne altri; cercava di cogliere i rumori impercettibili del mondo che camminava, strisciava, si arrampicava tra i fili d’erba. Quanta vita c’era tra i fili dell’erba, di giorno la poteva osservare, di notte no: l’evanescente carezza della luna lasciava intatto il mistero di quei minuscoli traffici e lei tendeva l’orecchio nella speranza di sentirne il brulichio, strani capricci da bambina. Aveva scritto un racconto ispirato a quelle notti, un racconto intimista che non avrebbe interessato a nessuno e per quello lo aveva lasciato nel cassetto. Il romanzo che ormai non avrebbe scritto era ambientato in quella casa dell’infanzia. Le tornarono alla memoria alcune scene che aveva immaginato e non solo immaginato, aveva preso anche degli appunti; appunti ricchi di particolari, scritti a mano in un grande quaderno, li avrebbe trascritti sul computer quando la trama le sarebbe apparsa più chiara. Quelle scene si riproposero talmente vivide che le sembrava di averle visto in un film e gli provocarono un’immensa tristezza, si stava congedando da un pezzo di sé. Da quella mesta sensazione la distolse qualcosa che stava accadendo nel suo interno: dallo stomaco saliva un certo brontolio, brontolio che era solo l’annuncio dell’attacco di fame che dopo qualche istante si presentò. Il suo povero stomaco non sapeva il pasto che da lì a poco gli avrebbe toccato digerire; il suo corpo nulla sapeva della sua decisione e candidamente esigeva la sua attenzione. Provò tenerezza per il suo corpo ignaro, così sano e così indifeso, così impotente di fronte ai disegni della mente. Ma lo stomaco insisteva e ora il desiderio lo assecondava: non solo aveva fame ma anche voglia di mangiare quel pezzo di formaggio solitario, rimasto nel frigo ormai vuoto. Oltre al formaggio, nel frigo c’era una bottiglia di chardonnay ancora chiusa, le venne una gran voglia di berne un bicchiere. Le piaceva il vino, il buon vino. Il vino scandiva le stagioni: rosso d’inverno, il barolo era il preferito, ma lo beveva raramente solo con pasti robusti e, se possibile, in compagnia. D’estate prendeva solo bianchi, champagne e prosecco in tutte le stagioni e in autunno il vino novello. Alla fine dell’estate cominciava a pensare alle zucche, alle castagne e al vino novello, la colpì a tradimento una folata di gioia. Non era una gioia attuale, piuttosto la reminiscenza della gioia quasi infantile che provava a volte davanti a cose minime della vita. Si alzò, basta con queste smancerie, con queste sensazioni inopportune, fuori luogo, la sua decisione era stata presa, pensata, vagliata ed era l’unica che aveva senso nel non senso della sua esistenza. Rientrò in camera, si avvicinò al comodino, prese il flaconcino e andò in bagno, accese la luce e si mise ad armeggiare con il tappo di sicurezza finché lo aprì; non le fu facile neanche estrarre il dosatore di plastica, ma alla fine ci riuscì. Rimasse assorta a guardare la piccola bocca spalancata della bottiglietta, poi alzò la vista e si trovò di fronte a una se stessa che l’osservava dallo specchio, avvicinò il viso per considerarsi meglio: le ciglia scure, lunghe e spese al punto di sembrare finte, l’iride verde cangiante; era ancora bella, dopo tutto aveva solo trentottanni. Si studiò il naso, la bocca, il collo, il seno alto e della giusta misura, tutte cose che gli uomini apprezzavano e più o meno sfacciatamente cercavano di portarsi a letto. Distolse gli occhi dallo specchio, l’investì ancora un gran senso di sconfitta, di una sconfitta diversa, però, di quella esperimentata nell’ultimo periodo; fissò di nuovo il flaconcino e scrollò la testa con una sorta di rassegnazione, poi si voltò lentamente, alzò il braccio e, senza esitare, versò tutto il liquido nel water, lanciò la bottiglietta vuota nel cestino e fece scorrere lo sciacquone. 

BIOGRAFIA DI GLADIS ALICIA PEREYRA
Sono nata a Cruz del Eje, una cittadina della provincia di Cordoba in Argentina. Mia madre era figlia di italiani; mio padre, un giornalista argentino di ascendenza basca, morì prima del mio secondo compleanno. Sono cresciuta a Cordoba in una famiglia di sole donne: mia madre, due sorelle molto più anziane di me e mia nonna materna: fu lei a insegnarmi ad amare l’Italia. Era nata a Sartirana Lomellina in provincia di Pavia e i ricordi del paese dell’infanzia che mi raccontava come fossero delle fiabe, destarono in me il desiderio di “ritornare” nella terra di origine. Finito il liceo, per colpa di effimeri entusiasmi giovanili, mi dedicai a studiare arte drammatica e più tardi regia cinematografica, tralasciando la scrittura che insieme alla lettura e all’interesse per la storia erano state fino ad allora – e oggi continuano a essere – realtà costanti nella mia vita.
Dopo alcune esperienze teatrali a Buenos Aires, realizzai il progetto maturato nell’infanzia e a lungo rimandato di “ritornare” in Italia. Di ritornare – senza virgolette – sentono, come me, molti figli o nipoti di emigrati, cresciuti lontani dall’Italia ma in un ambiente che ha mantenuto vive tradizioni e cultura italiane.
Contrariamente a ciò che avrebbe potuto desiderare mia nonna, non ho scelto per vivere Pavia o Milano, ma Roma. In questa città, carica di tempo e di storia, mi sento nel mio ambiente naturale.
Qualche mese dopo il mio arrivo, una borsa di studio mi permise di frequentare un corso di regia televisiva presso la RAI di Firenze. In seguito ho lavorato come assistente volontaria alla regia in un film di Franco Rossi e come fotografa per un’agenzia; nel contempo tenevo lezioni private di spagnolo. Furono anni felici ma difficili: finite le risorse portate dall’Argentina, dovevo trovare, o inventare, un lavoro che mi permettesse una certa stabilità economica. La ricerca mi condusse a scoprire la ceramica. I primi risultati furono piuttosto incoraggianti e in un tempo relativamente breve fui in grado di eseguire pezzi unici che venivano apprezzati e soprattutto si vendevano. La ceramica mi insegnò qualcosa di me che non avevo ancora capito: mi piace lavorare, creare in solitudine. Rinunciai al cinema e alla fotografia e ripresi a scrivere, in spagnolo; subito mi accorsi, però, dell’impossibilità di vivere e pensare in una lingua e scrivere nella sua sorella: se avessi scritto in tedesco, forse, la difficoltà non sarebbe esistita. Avevo iniziato a studiare italiano da adolescente, lo parlavo e lo leggevo perfettamente e, se non fosse stato per le doppie spesso e volentieri messe a sproposito, avrei anche potuto ritenere di saper scrivere, ma fare letteratura, naturalmente, era tutta un’altra storia. M’impegnai a perfezionare l’italiano: se mia sentivo questa terra dove non ero nata, mia doveva essere la sua lingua. Fu un periodo molto intenso, di lunghe e diversificate letture: letteratura, storia, antropologia, psicologia, storia delle religioni. Seguii un corso di latino presso l’Università Gregoriana di Roma e di francese presso l’Alliance Francaise. Mi preparavo, ma dubitavo di avere capacità sufficiente per affrontare con serietà la scrittura. Diventare scrittrice mi appariva un traguardo troppo in alto per le mie forze. Un Natale ricevetti in regalo I miti di creazione di Marie Louise Von Franz, quel libro mi diede la spinta, il coraggio che mi mancava e nacque il mio primo romanzo: I quattro lati del cerchio che, una volta finito, giudicai troppo sperimentale e saggiamente lasciai nel cassetto. Cominciai a lavorare a Il cammino e il pellegrino e per cinque anni frugai tra le pieghe della storia fiorentina della fine del XIII secolo per costruire la quotidianità dei miei personaggi. Il nuovo romanzo ebbe lettori di eccezione come Pietro Citati e Daniel Chavarria che lo apprezzarono e mi incoraggiarono. Fece parte della cinquina del Premio all’inedito Palazzo al Bosco e Giovanna Querci Favini, promotrice del premio, tentò senza successo di farlo pubblicare. Finito il libro, gli studi sul medioevo italiano continuarono. Intanto con alcuni amici ho fondato l’Associazione Culturale Clara Maffei di cui sono presidente. A settembre del 2009 ho finito il mio terzo romanzo: I panni del saracino. All’edizione di quell’anno di Più libri più liberi ho contattato Anna Grazia D’Oria presso lo stand della Pietro Manni editore. Era la prima volta che mi rivolgevo a una casa editrice indipendente; la mia intenzione era chiedere di visionare l’ultimo romanzo. Sul momento, tuttavia, ho cambiato idea e le ho parlato di Il cammino e il pellegrino; è stato uno slancio di puro istinto. A giugno mi è arrivata la proposta di contratto che ho accettato. I panni del saracino attende fiducioso il suo turno; intanto lavoro a un nuovo romanzo e pubblico articoli e piccoli saggi di storia medievale sul sito Clara Maffei.

Ultimo aggiornamento Martedì 09 Ottobre 2012 19:42
 
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