Napoli: Il cugino di Totò
Tra gli ospiti che hanno apportato significative novità degne di essere divulgate va annoverato , cugino del grande Totò ed abituale frequentatore del salotto di mia moglie. Egli nel corso di due relazioni ci fece conoscere una serie di segreti ignoti agli stessi specialisti dell’illustra Principe del sorriso. Prima di discutere della nobiltà dell'artista vorremmo spendere qualche parola su un aspetto trascurato dell'arte di Totò: il surrealismo. Il genio di Totò è universale ed incommensurabile, ma la sua fama è sempre stata circoscritta ai confini patri, colpa di una critica miope, quando l'attore era in attività, di traduzioni e doppiaggi a dir poco deleteri e di una distribuzione all'estero maldestra ed approssimativa.
Negli ultimi anni grandi rassegne in Europa ed oltreoceano sui suoi film più celebri hanno in parte colmato questa grave lacuna, ma forse è troppo tardi per portare in tutto il mondo il suo umorismo straripante, la sua figura dinoccoluta, la sua maschera comica e tragica allo stesso tempo, degna della fama e dell'immortalità di un archetipo greco. Il ritmo dei suoi film mostra i segni del tempo, né più né meno della produzione di mitici personaggi come Chaplin o Gianni e Pinotto ed è un peccato che dalla sua immutata vitalità possano continuare a trarre linfa vitale solo gli Italiani e pochi altri. Il Totò surreale che si esprime già nei suoi film più antichi e nel suo teatro, del quale purtroppo non è rimasta che una labile traccia, è stata sottovalutata anche dalla critica più attenta. Nei trattati di cinematografia infatti si parla soltanto di Bunuel e delle sue impeccabili creazioni e non vi è un solo rigo sul funambolismo verbale di Totò, che avrebbe fatto impazzire i fondatori del surrealismo, i quali avrebbero sicuramente incluso qualcuna delle sue battute nel Manifesto del nuovo verbo. I due orfanelli, uno dei suoi primi film, in coppia con Campanini, ne è la lampante dimostrazione. L'altro giorno è stato messo in onda dalla televisione ed ho potuto gustarlo credo per la centesima volta. Quelle sue battute al fulmicotone, immerse in un'atmosfera onirica, cariche di antica saggezza invitano alla meditazione ed acquistano smalto ed attualità col passare del tempo. Sono degne di un'antologia da studiare in tutte le scuole. Ne rammento qualcuna per la gioia della sterminata platea dei suoi ammiratori: Ai generosi cavalieri corsi a salvarlo nelle vesti di Napoleone. "Ma quando mai coloro che provocano le guerre corrono dei pericoli" All'amico che gli manifestava stupore nel constatare che i cattivi vengono premiati ed i buoni vengono castigati. "Ma di cosa ti preoccupi la vita è un sogno" Ed infine all'abate Faria che lo invitava a scappare "Ma perché debbo scappare, sono innocente" "Proprio perché sei innocente devi avere paura della giustizia!". Una frase scultorea sulla quale ho avuto occasione più volte di meditare nel corso della mia ingiusta detenzione nel carcere di Rebibbia. Una frase scultorea che ho fatto mia di recente, mentre moderavo la presentazione di un libro in presenza di magistrati di altissimo rango e che mi ha permesso di fare un figurone. Ma ritorniamo al racconto del cugino di Totò, il quale con squisita gentilezza ci ha fornito una serie di notizie che, integrate da alcune ricerche genealogiche, ci permette oggi di escludere categoricamente la nobiltà tanto agognata da Totò, perché lo riscattava da un triste passato di figlio di N.N. Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Commneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, Altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e d’Illiria, principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponto, di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte e duca di Drivasto e di Durazzo, così amava definirsi il grande Totò, il quale pur di fregiarsi di questi altisonanti titoli nobiliari spese una fortuna, ma senza rimpianti. Questa sfilza di titoli, a cui tanto teneva il Principe del sorriso non furono altro che il frutto di un raggiro ad opera di un tal Pellicani, esperto di araldica oggi ottantenne ma ancora attivo con studio a Roma e a Milano. Il primo a sentire puzza di bruciato e odore di truffa fu Indro Montanelli e lo esplicitò in un suo articolo, ma all’epoca non vi erano le prove inoppugnabili dello scartiloffio. Oggi viceversa sono disponibili due ben distinti alberi genealogici, uno di Totò e della sua famiglia e l’altro di un tal Camillo de Curtis, un gentiluomo di settantanove anni, da anni residente a Caracas, legittimo erede dei pomposi titoli nobiliari, assunti in epoca remota da un suo avo tale Gaspare de Curtis. Il Pellicani, che tra l’altro, come ci ha assicurato il colonnello Bellati, è stato per un periodo ospite dello Stato…creò, secondo quanto riferitoci dal tenore De Curtis, che da decenni s’interessa alla vicenda, documenti dubbi, quali una sentenza del Tribunale di Avezzano emessa nel 1914, pochi mesi prima che un cataclisma devastasse la città, distruggendo la cittadella giudiziaria ed altre due sentenze, l’una del 1945, l’altra del 1946, del Tribunale di Napoli, oggi conservate all’Archivio di Stato, completamente diverse nella grafia da tutte le altre carte contenute nel faldone ed inoltre pare combinò artatamente le due discendenze carpendo l’ingenuità del grande artista che, una volta riconosciuta la sua preclara discendenza, fino alla morte amò distinguere la maschera, irriverente scoppiettante e canzonatoria, dal Nobile, gentile, educato e distaccato dagli eventi e dalle passioni. Pubblichiamo per la prima volta questi due alberi genealogici, uno dei quali indagato fino al 1750 e dal loro esame è incontrovertibile che il marchese Camillo de Curtis appartiene ad una diversa schiatta. Ciò che abbiamo riferito sulla base delle confidenze del maestro Federico, non sposta naturalmente una virgola nella straripante venerazione con cui legioni di estimatori ricordano il grande, inimitabile, immortale artista e tra questi ai primi posti, teniamo a precisare a scanso di equivoci, sta il sottoscritto, il quale ha rivisto ogni film di Totò non meno di quaranta - cinquanta volte ed è in grado di ripeterne a memoria qualsiasi battuta, tutte le poesie e tutte le canzoni. Ma a proposito di canzoni, trovandoci, vogliamo rendere pubbliche altre confidenze forniteci gentilmente dal parente dell’attore, cugino di secondo grado, il quale, a riguardo dell’indimenticabile canzone “Malafemmina” tiene a precisare che la stessa fu dedicata alla moglie Diana, ancora oggi vivente e non a Silvana Pampanini, che l’idea della melodia Totò la prese da una analoga canzone dello zio, padre del maestro Federico, ed infine che a ritoccare musica e parole misero mano il maestro Bonagura e Giacomo Rondinella. E per terminare anche la famosa “Livella”si mormora fosse stata corretta… da Mario Stefanile. E siamo inoltre certi che Totò dalla tomba se leggesse ciò che abbiamo scritto saprebbe commentare le nostre parole se non con una pernacchia almeno con un perentorio: ”Ma ci facciano il piacere”. Achille della Ragione
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