8° Capitolo - L’ora d’aria Sarebbe più esatto parlare di due ore di aria, sono questi gli unici momenti che il detenuto passa fuori all’aperto, mentre le altre 22 le passa negli angusti spazi della sua cella. Le strutture destinate a questi sfoghi peripatetici sono cortili delimitati da mura infinite, esposti al sole ed eventualmente alla pioggia e misurano 200 – 300 metri quadrati, utilizzati potenzialmente da un numero di detenuti superiore a cento unità. Nella mia breve quanto intensa permanenza ho fatto la conoscenza di due cortili: quello del padiglione Avellino e quello del padiglione ospedaliero San Paolo, del quale parlerò nell’apposito capitolo.
Nonostante non vi siano particolari attrattive, se non il potersi sgranchire un poco le gambe e fare quattro chiacchiere con persone diverse dal solito, tutti attendono impazienti quei pochi minuti di illusione di libertà. La mattina è permesso il gioco del pallone, al quale si dedicano i più giovani per scaricare l’energia repressa ed il pericolo di una pallonata in testa più che un’eventualità è una certezza. Di pomeriggio il perimetro esterno viene occupato dai podisti, i quali incuranti del sole cocente e delle temperature africane sembrano prepararsi meticolosamente alle olimpiadi. Tutti fumano accanitamente, anche 3 o 4 sigarette in meno di un’ora. Ciò avviene fino al venerdì, quando le scorte cominciano repentinamente a finire. Il sabato e la domenica chi accende una sigaretta può fare al massimo due tiri, dopo, di bocca in bocca, il mozzicone placa la sete di nicotina di almeno altre dieci persone. I primi giorni avvengono le presentazioni, dichiarando nome di battesimo e reato: Totore rapina a mano armata, Ciruzzo spaccio, Sasà furto con scasso, naturalmente quando l’interlocutore afferma orgoglioso omicida, le prime volte, lo confesso avevo un misto di timore ed imbarazzo. L’ora d’aria, a stretto contatto con tanti criminali, può essere pericolosa per chi non appartiene al giro…Infatti se a qualche energumeno venisse lo sghiribizzo di bastonarti, si può essere certi che nessuna delle guardie carcerarie interverrebbe a soccorrerti. Una sola volta ho avuto paura quando un esaltato, dallo sguardo stravolto e dagli occhi iniettati di sangue, cominciò a ringhiarmi appellandomi:”Assassino, assassino, devi morire sporco assassino”. Fortunatamente uno dei miei compagni di cella, un marcantonio dai bicipiti scolpiti e dalla forza straripante lo affrontò e seduta stante lo indusse a desistere. In seguito a questo episodio mi muovevo solo e soltanto con la compagnia di erculei palestrati ed incontri imbarazzanti non si sono più ripetuti. Andato via dopo pochi giorni agli arresti domiciliari Grillo, l’anestesista, io ero rimasto il più anziano del gruppo, una sensazione imbarazzante e per me assolutamente nuova. Tutti mi chiamavano, con affetto misto a rispetto, zio, per fortuna non nonno, una veste che ricopro realmente, ma i miei nipotini: Leonardo e Matteo hanno soltanto 2 ed 1 anno. Nella vita civile i miei amici più cari sono, salvo poche eccezioni, tutti più grandi di me ed anche i miei numerosi proseliti ai quali, nel corso delle settimanali visite guidate da me organizzate, impartisco in pari misura notizie storico artistiche ed amore per la nostra sfortunata città, sono nella quasi totalità dei vegliardi o dei pacifici pensionati. Provavo la stessa imbarazzante sensazione saggiata sull’autobus quando, mentre fittiavo con un languido sguardo una studentessa dalle forme esuberanti e dalla minigonna vertiginosa, la stessa, che mi illudevo ricambiasse le mie avances visive, si alzò per cedermi il posto a sedere. Rapidamente si era sparsa la voce che ero un medico e contavo di scrivere un libro sulla situazione carceraria, inoltre non solo la stampa(a Poggioreale si leggono solo il Roma e Cronache di Napoli), ma anche tutti i telegiornali nazionali e locali avevano straparlato a vanvera della mia vicissitudine giudiziaria, scatenando l’ilarità degli astanti, i quali si meravigliavano vivamente che praticare un aborto in privato fosse un reato. Quando poi sentivano che le intercettazioni avevano evidenziato una sola paziente da me inviata ad un collega, la quale poi addirittura aveva cambiato idea, si scompisciavano letteralmente. Dopo due o tre giorni per parlare con me si faceva la fila, mi sembrava di essere divenuto l’eduardiano sindaco del rione Sanità. Metà mi esponevano casi clinici personali o di parenti, l’altra metà mi parlava di angherie subite, mi chiedevano di scrivere lettere o poesie per i familiari, mi raccontavano di desideri repressi e di sogni nel cassetto. Alcuni personaggi erano stupefacenti, altri semplicemente incredibili. Tutti si lamentavano del proprio avvocato che era uno stronz… avido di denaro e strafottente. Le cose viste al cinematografo si ripetevano pedissequamente nella realtà. Nessuno aveva visto il film Gomorra, pochissimi avevano sentito parlare del libro, Saviano era scambiato per il nuovo attaccante del Napoli. Ninuzzo per due giorni era divenuto maggiorenne ed era a Poggioreale invece che a Nisida. Mi raccontò che faceva la vedetta di primo livello per conto di un clan per una manciata di euro. Furbamente avrebbe scelto l’avvocato d’ufficio e non quello messo a disposizione dall’organizzazione criminosa da cui dipendeva, perché l’accusa di associazione moltiplica la pena in maniera vertiginosa. Era sereno perché aveva saputo che già il giorno successivo alla sua cattura, un incaricato aveva consegnato del denaro alla madre ed alla giovane moglie. “Guadagno di più stando dentro che stando fuori”. Dimenticavo, quasi tutti i reclusi sono sposati ed a venti anni hanno già un paio di figli, bocche da sfamare che spesso, per la cronica mancanza di un lavoro onesto, inducono a delinquere. Michele mi raccontava affranto che la madre, non ancora quarantenne, mentre si recava da lui per uno dei primi colloqui era stata colta da malore e condotta in ospedale vi era giunta priva di vita. Non era riuscito ad andare al funerale e da quindici giorni aspettava di poter almeno pregare sulla sua tomba. Tutti indistintamente si lamentavano dello spazio e del tempo limitato dedicato a Poggioreale alla socialità. Già a Secondigliano pare vi siano quattro ore a disposizione e degli ambienti più confortevoli, qualcuno che era stato in penitenziari al nord, parlava di veri e propri alberghi. Le strutture hanno più di cento anni, immagino però che, sfruttando nella buona stagione le ore pomeridiane, con un pizzico di buona volontà, si potrebbe venire parzialmente incontro alle legittime richieste dei reclusi, sarebbe un primo, ma significativo, piccolo passo: anche la più pazzesca cavalcata è fatta di tanti passi. 9° Capitolo - Il colloquio con l’ispettore e l’educatrice Per lavoranti si intendono dei detenuti, in genere condannati a lunghe pene definitive, ai quali viene data l’occasione di lavorare, trascorrendo meglio il tempo e guadagnando qualche spicciolo, in genere 300 euro al mese, per le sigarette o per inviare un piccolo aiuto a casa. Essi si incaricano di lavare i pavimenti dei corridoi, di raccogliere e consegnare la posta, portare il mangiare ai detenuti. Anche il barbiere, che passa una volta la settimana, solo per il taglio dei capelli, è uno di questi. Ho avuto modo di conoscerlo, sembrava un uomo mite, oltre che minuscolo di corporatura; aveva bottega nel centro storico e la sua vita scorreva tranquilla fino a quando la moglie non lo cornificò e lui, in osservanza ad una norma tribale, si ritenne obbligato ad ucciderla. Stava lì da un’eternità ed aveva calcolato che prima di uscire avrebbe dovuto tagliare i capelli a decine di migliaia di detenuti, naturalmente con le stesse forbici mai sterilizzate, per la gioia dei pediculi humanis capitis, per il volgo pidocchi, che si trasferiscono allegramente testa dopo testa, allo scopo di distrarre con i loro vermicolari movimenti i momentanei possessori, che possono in tal modo trascorrere un po’ del loro tempo nel grattarsi e nell’imprecare. Tutti i reclusi possono avere dai lavoranti, nel momento in cui consegnano la posta o il mangiare, dei moduli con i quali chiedere le cose più disparate all’amministrazione: dal fare un telegramma al sollecitare un colloquio con l’educatore, anche se esso forse non avverrà mai. La visita medica si richiede invece al mattino durante la conta, un’usanza creata, più che per motivi di sicurezza, per infliggere al detenuto l’umiliazione triquotidiana di mettersi sull’attenti, decentemente vestito, sguardo verso il basso, mani dietro la schiena ed attendere il passaggio dei secondini. Poco importa se da poco avevi preso sonno dopo una notte devastante o se eri impegnato nel soddisfare una pur necessaria pratica intestinale. Sin dal primo giorno ho usufruito di questi moduli facendo le più disparate richieste, dal poter contare sui conforti religiosi ad avere colloqui con lo psicologo, ma soprattutto il permesso dall’ispettore di poter assumere dai detenuti, nelle ore di aria, informazioni atte a formulare una petizione da inviare al Parlamento con delle richieste circostanziate atte a migliorare la vivibilità nell’inferno di Poggioreale. Una domanda non certo superflua perché, parlando con tante persone, può insorgere il sospetto di essere un sobillatore o, peggio ancora, l’organizzatore di manifestazioni di protesta, con il pericolo reale di essere sottoposto a punizioni previste dal regolamento, che prevede l’isolamento in celle sotterranee per più giorni a pane ed acqua. Fui convocato dopo pochi giorni dall’ispettore nel suo ufficio in presenza dell’educatrice e mi fu spiegato che la mia era una richiesta incomprensibile, mai avvenuta prima. Replicai che da anni, ridotta la professione medica, ero a tempo pieno un giornalista ed uno scrittore impegnato in vari campi e non nuovo a trattare problematiche riguardanti la vita nei penitenziari. Accennai ai miei scritti sull’argomento, ai convegni da me organizzati e precisai che numerosi parlamentari di tutte le forze politiche sono miei amici o estimatori. L’ispettore mi chiese sbalordito:”Ma lei ha capito che si trova recluso in un carcere in cui assoluta disciplina e massima severità sono la regola e tutti sono obbligati a rispettarle?”. Risposi di essere conscio di dover agire in condizioni estremamente difficili, ma, nello stesso tempo, ero deciso a portare avanti la mia battaglia, anche a rischio di mettere a repentaglio la mia incolumità personale. Davanti alla mia caparbietà non mi furono fatte particolari obiezioni, mi fu solo raccomandato di non avanzare richieste impossibili da realizzare, perché Poggioreale ha una recettività limitata e da tempo immemorabile ospita il doppio dei detenuti previsti, con conseguente invivibilità e grossi disagi anche per il personale di custodia, costretto a sobbarcarsi un carico di lavoro superiore a quello previsto. Inoltre ho saputo anche, i giorni successivi, da altra fonte, che nel carcere napoletano vige una norma di massima severità dal 1982, all’epoca delle rivolte capeggiate dal leggendario boss Cutolo, la quale doveva rimanere in vigore 25 anni, ma nel 2007 è stata tacitamente rinnovata. Il giorno successivo fui convocato dall’educatrice, una funzionaria molto garbata ed impegnata nel predisporre, pur nell’assoluta esiguità degli spazi a disposizione, attività per i reclusi. Purtroppo mi disse:” Durante i mesi estivi si ferma tutto, anche il contributo dei volontari esterni, che collaborano ad organizzare corsi sulle tematiche più varie. Di questo avevo avuto cognizione da una lettera di un professoressa di storia dell’arte, affezionata lettrice dei miei libri sull’argomento, la quale si dispiaceva di non poterci incontrare prima dell’autunno. Il materiale raccolto nelle mie conversazioni con gli altri reclusi è molto copioso, anche se inizialmente fissato solo nella mia mente, esso costituisce la struttura di questo mio libro, che mi riservo di far pervenire a tutti i parlamentari ed attraverso i mass media all’attenzione dell’opinione pubblica. 10° Capitolo - La conferenza sugli zingari Ero ospite da pochi giorni quando, intorno alle 13, un agente carcerario fece il giro delle celle del nostro padiglione, avvertendoci che nel pomeriggio, nel grande spazio della chiesa, si sarebbe tenuto uno spettacolo e bisognava prenotarsi. Tutti accettarono volentieri, qualsiasi occasione per uscire dalla cella veniva colta al volo ed il pienone fu assicurato. In fila per quattro vi fu un lunghissimo prologo nei corridoi, ma alla fine arrivammo in chiesa, dove la temperatura è più sopportabile, complici una serie di ventilatori posti sulle pareti laterali. Vi erano anche detenuti provenienti da altri padiglioni per un totale di circa 300 spettatori, oltre ad una settantina di guardie. La delusione fu grande e serpeggiò rumorosa, allorquando il promesso teatro si rivelò una presentazione di un libro sui Rom e un incontro con l’autore ed un’antropologa, organizzato dalla comunità di Sant’Egidio. La dotta conversazione durò poco più di 30 minuti ed alla fine, timidamente, la dottoressa chiese se qualcuno voleva porre qualche domanda. Alzai il dito e mi avviai verso il palco ove vi era il microfono. Mi chiesero di dire il mio nome ed io: ”Mi chiamo Achille della Ragione e sono qui da appena cinque giorni. Vorrei farmi portavoce della delusione dei miei compagni, ai quali era stato promesso uno spettacolo, si aspettavano un cantante, i più ottimisti una ballerina, ma anche una discussione ogni tanto può essere utile” continuai ”Mi permetto di prendere la parola perché sull’argomento ho scritto un breve saggio Zingari quale futuro?, pubblicato in parte da alcuni quotidiani, accolto benevolmente dalla stampa internazionale, consultabile sul web ed al quale i principali giornali romeni hanno dedicato la prima pagina dando il titolo Laggiù qualcuno ci ama”. Cercai poi a memoria di citare qualche passo del mio scritto: “Ma la Romania aveva titolo a far parte dell’Europa? La risposta è pleonastica: la Romania è stata sempre Europa. Lo era quando le legioni romane di Traiano sono andate a conquistarla trasformandola nel granaio dell’impero, lo era quando ha fatto scudo all’espansionismo ottomano e lo era pienamente quando a Yalta i tre vincitori decisero di darla in pasta al comunismo. Ed a continuato a beneficiare l’Europa anche sotto Ceausescu, conservando le frontiere inviolabili e ritardando di decenni le odierne migrazioni, che in democrazia è pura utopia sperare di poter contrastare. Nei secoli i tentativi forzati di assimilazione o la ricerca di efferate soluzioni finali…, sono stati numerosi: alcuni Stati europei, tra i quali l’illuminato impero austro ungarico prevedevano di togliere i figli agli zingari, stabilendo che venissero allontanati dai loro genitori e inseriti in famiglie tradizionali, mentre la nomea di rubare i bambini è rimasto invece pregiudizio dei rom, fino alla politica criminale di Hitler, che ha inviato centinaia di migliaia di nomadi nei campi di sterminio senza che nessun giorno della memoria si commemori per ricordare al mondo questo immane olocausto. Pochi i giorni lieti accanto alle persecuzioni, quando erano attesi e onorati, nelle loro peregrinazioni periodiche e portavano in un paese la loro musica, le loro danze, i loro spettacoli, i loro abiti vivaci, la loro abilità nel riparare utensili rotti, la loro melanconica gioia di vivere. Oggi gli zingari sono trattati dalla legislazione, dalle amministrazioni locali, dai giornali e dalle televisioni, dai cittadini come rifiuti umani, da relegare in quelle discariche a cielo aperto che sono gli accampamenti nomadi, situati sempre nell’estrema periferia metropolitana, vicino a cumuli di spazzatura, a un cimitero, a uno scarico industriale, quasi sempre sotto la massicciata di un ponte autostradale o di una ferrovia, o anche sulle sponde di un torrente o di un canale, là dove la comunità urbana colloca idealmente e materialmente i propri rifiuti. Sono i monumenti moderni alla segregazione, che le nostre amministrazioni comunali, senza distinzione di colore politico hanno creato, cercando di dimenticare il problema senza sforzarsi a cercare una diversa soluzione. L’Europa ha creato uno spazio unico di libertà, sicurezza, giustizia al quale non difetta la solidarietà e tanta ce ne vorrà per risolvere il problema degli zingari, senza mai dimenticare che sono cittadini europei. Bisogna convincersi che è del tutto inutile sgomberare una tribù da un terreno occupato abusivamente nella periferia di una città, perché andrà ad occuparne un altro e si potrà essere abusivi su di un terreno, su tutti i terreni, ma nessuno è abusivo sulla Terra, figuriamoci in Europa. Tra i rom esistono figure rivestite di un’autorità e con loro bisognerà fare accordi, riconoscere diritti fondamentali in cambio dell’osservanza dei doveri, rispettare tradizioni e costumi, prestare generosamente servizi ed assistenza in cambio di un impegno alla legalità, includendo l’obbligo per i minori di dedicarsi allo studio. In caso contrario agire con grande severità, togliendo la patria potestà ai genitori che avviano la prole all’accattonaggio. Una prospettiva che riunisca il bastone e la carota e che sia insieme, sicurezza e solidarietà, libertà e responsabilità, diritti ma anche doveri. Dobbiamo attivarci cercando di convincerli ad entrare nei cicli delle nostre attività e delle nostre esistenze. Gli zingari rappresentano una riserva straordinaria di vitalità, di adattamento, di voglia di vivere, di solidarietà. Essi sono il banco di prova di quella riforma della società che tutti chiedono e che nessuno ha la capacità di elaborare. Inventare un rapporto di collaborazione con loro e con i flussi sempre più imponenti di profughi, migranti e nomadi di ogni genere trascinati alla deriva lungo le tortuose strade della globalizzazione non è un problema di poco conto, da delegare alla Caritas o al politico di turno, bensì è la scommessa che l’Europa fa con il proprio futuro e gran parte del destino degli zingari è nelle loro mani. Essi sono o fanno credere di essere bravi ed esperti chiromanti, che sappiano leggere il loro futuro, dopo che per secoli ci hanno voluto far credere di saper leggere il nostro”. Volli poi collegarmi ad un altro mio contributo sotto forma di lettera al direttore, pubblicata da vari quotidiani, sul vile assalto ai campi rom di Ponticelli ed intitolato Napoli brucia:“Da alcuni giorni Napoli brucia senza sosta a tutte le ore, bruciano in cento luoghi i cumuli di spazzatura, ai quali cittadini inferociti appiccano le fiamme innalzando roghi sacrificali generatori di micidiale diossina, ardono i campi rom, situati nella disperata periferia cittadina, ad opera di criminali applauditi da una folla divenuta intollerante e xenofoba, bruciano “e cervelle” a tutti i napoletani che, stretti tra rifiuti ubiquitari, criminalità diffusa, traffico impazzito e disoccupazione da record, vedono la loro città abbandonata ad un destino atroce, ma soprattutto va in fumo definitivamente una grande e gloriosa capitale dopo 2500 anni di storia invidiata, che non ha conosciuto né il Ghetto, né l’Inquisizione, costretta ad un’esistenza da quarto mondo senza speranza di riscatto o di redenzione. Il fuoco ha sempre rappresentato un segno di purificazione e di rigenerazione, dalla Bibbia alle antiche vestali romane, ma le fiamme napoletane sono quelle dell’inferno dantesco, simbolo di un castigo divino al quale non ci si può opporre, producono solo cenere e distruzione. La furia devastatrice che si sta scatenando in questi giorni è sintomo di un malessere che ha colpito il cuore pulsante e la stessa anima tollerante della città. Gli zingari non sono i soli disperati che vivono ai margini della società, vi sono moltitudini di accattoni, di senza casa accampati all’addiaccio, di sbandati che vivono alla giornata, di disoccupati costretti ad una minacciosa quanto sterile protesta. Attenti che non venga in mente a qualcuno che si possa risolvere questo ed altri problemi scatenando un gigantesco falò”. Conclusi poi il mio intervento sottolineando che i carcerati conoscono molto bene il dolore e la sofferenza, perciò sanno ben intendere la tragedia del popolo rom. Ebbi cinque minuti di applausi entusiasti, anche da parte delle guardie carcerarie, molte delle quali di altri padiglioni, mi fu riferito poi, chiedevano meravigliati a coloro che avevano accompagnato:”Ma chi cazz… è quello che ha parlato?”. Quell’applauso fu per me una droga, mai nelle mie innumerevoli conferenze ne avevo avuto uno così lungo e clamoroso da parte di un pubblico, oltre trecento persone, che neppure Umberto Eco riesce a radunare: Quando tornai verso il mio posto a sedere, posto all’ingresso della chiesa, decine di colleghi… mi strinsero la mano, anche spietati pluriomicidi, ma la maggior parte voleva complimentarsi, non tanto per quello che avevo detto, bensì per quello che aveva scritto mia moglie in una lettera(vedi appendice) pubblicata integralmente da tutta la stampa locale ed, attraverso il consueto tamtam, letta in tutti i padiglioni. Ti invidiamo, hai una moglie non solo coraggiosa, ma soprattutto innamorata di te, anche noi chiederemo alle nostre mogli ed alle nostre compagne di stabilire un orario nel quale pensarci intensamente, in maniera che il nostro affetto trapassi le mura e le sbarre e viaggi puro e libero nello spazio. Dopo il mio intervento molti presero coraggio ed i contributi del pubblico furono una decina, in genere arrabbiati verso gli zingari, ritenuti scansafatiche, ladri ed approfittatori. Molti protestarono vivamente per la proposta di un contributo di 500 euro a famiglia avanzata dall’amministrazione regionale, mentre i loro figli e le loro mogli erano alla fame. Chi vive a stretto contatto con i campi dove sono accampati gli zingari, naturalmente la pensa diversamente dagli abitanti delle zone in della città, perbenisti ed a chiacchiere tolleranti, i quali li vedono solo elemosinare, ma non sono costretti a dividere con loro gli stessi spazi vitali. Alla fine un nuovo appuntamento fu fissato per il giorno 11 luglio, gli organizzatori assicurarono: si tratterà di un festa ed interverrà un personaggio importante, che fonti ben informate mi fecero intendere si sarebbe trattato del cardinale Sepe. Per fortuna quel giorno scoccherà per me nella tranquillità delle pareti domestiche, anche se, sollecitato da più parti, avevo preparato un discorsetto da fare al presule a nome di tutti i miei compagni, ma non avevo una traccia scritta delle richieste da avanzare, per cui non ho potuto affidare ad altri quello che mi ero prefisso di dire. 11° Capitolo - Sogni ed incubi Di sera, nella buona stagione alle 23 con riapertura alle 7, le porte delle celle vengono sigillate da un portoncino blindato con una piccola fessura a mo’ di caveau, il quale ai fini della sicurezza è assolutamente inutile, ma è molto efficace nel provocarti crisi claustrofobiche e la penosa sensazione di essere fuori dal mondo, oltre naturalmente al rischio che, se i tuoi coinquilini vogliono bastonarti o meglio ancora sodomizzarti, non solo nessuno verrà in tuo soccorso, ma nessuno ti sentirà. La sensazione angosciosa di una cesura netta ed invalicabile verso l’esterno provocata dall’ermetica chiusura del portellone blindato, crea, anche nei veterani, uno stato di ansia e di sconforto. I miei compagni temevano un non improbabile terremoto, che ci avrebbe accomunato alla sorte dei topi in trappola, io, per due volte, ho avuto un episodio anginoso di media gravità. Altre volte nei mesi scorsi ai primi sintomi ero corso in ospedale, una volta rimasi due giorni in terapia intensiva per una crisi ipertensiva, un’altra mi praticarono in pochi minuti una trombolisi, evitando un disastroso infarto. Nella cella non avevo scelta, né possibilità alcuna di salvarmi. La prima volta, quando il dolore divenne insopportabile, assunsi una compressa di Carvasin, un farmaco salva vita che ero riuscito a non farmi sequestrare al momento dell’entrata, il quale in qualche minuto mitigò la terebrante sintomatologia. La sera successiva il dolore lancinante si ripresentò al centro del torace, cercai di chiamare i miei compagni, ma non mi sentirono, lentamente mi si annebbiò la vista e persi le forze, ero certo di morire, ero contento, anche se pensavo a mia moglie, a mia figlia Marina, la più piccola, che lasciavo per sempre, al sorriso dei miei nipoti che non avrei più visto. Le notti successive ho invocato la morte, ma non mi ha ascoltato, il dolore non è più tornato ed ho di nuovo desiderato vivere. In genere io sogno tutte le notti, sogni bellissimi interminabili, gratificanti, segno evidente che sono in pace non solo con la mia coscienza, ma anche con il mio inconscio. Sogno i miei familiari e spesso anche i miei splendidi rottweiler Lady, Athos e Porthos, che vivono purtroppo soltanto nel mio cuore e nel mio ricordo. A volte ho la sensazione di vivere un’esperienza fuori dalla realtà, ma riesco a prolungare la piacevole sensazione ed a non risvegliarmi. Ho chiesto ad altri detenuti di vecchia data e tutti mi hanno confermato che i loro sonni sono agitati e raramente confortati da divagazioni oniriche. Io ho fatto un sogno ed un incubo: il primo, molto bello, era popolato da quasi tutti i miei familiari ed è stato interminabile, nonostante alcune interruzioni ha coperto quasi tutta la notte: mia moglie Elvira era giovanissima ed estremamente attraente mentre il mio Attila era ricoperto da uno strano pelo bianco. Vi era anche Tania, la nostra domestica dal sorriso ingenuo e dalla risatina coinvolgente, quanto mi è mancata anche lei in questi giorni, la sua sveglia mattutina con il caffè fumante ed i quotidiani; il secondo da bello si è rivelato il più crudele degli incubi, perché credevo di essere tornato a casa libero e di stare davanti al mio computer consultando la posta elettronica, quando la chioccia voce del lavorante:”Latte!”, mi ha ricondotto alla triste realtà. Le altre notti mi hanno riservato poche e nervose ore di sonno, dall’una, in coincidenza della fine dei programmi televisivi, alle tre, poi un lungo intervallo a pensare al nulla, mentre i compagni di cella dormivano, avvolto nel buio più assoluto e con la penosa sensazione di essere in trappola, ermeticamente chiuso da quel poderoso portellone. Confesso di aver provato paura, una sensazione vile, ma della quale non credo ci si debba vergognare, anche Gesù Cristo ha provato questo umano sentimento, quando si vide perduto ed abbandonato da tutti nel giardino di Getsemani. Quindi un’altra mezz’ora di torpore, prima dell’alba, la quale, ben prima delle sei, inondava di una pallida luce, filtrata dalle sbarre e dalla rete di ferro esterna(adibita ad impedire l’entrata dei topi e l’arrivo di piccioni viaggiatori), l’angusta celletta nella quale si preparava lentamente a trascorrere una nuova interminabile giornata. 12° Capitolo - Gli stranieri Se gli istituti di pena italiani sono superaffollati ciò è dovuto alla massiccia presenza di stranieri, che costituiscono circa un terzo della popolazione carceraria. Oggi si è ritornati, dopo appena due anni di respiro, alla situazione precedente all’approvazione dell’indulto con 61.000 presenze a fronte di una capienza di 43.000 posti. A Poggioreale gli stranieri sono stipati in padiglioni e celle dedicate a loro, divise tenendo conto delle diverse lingue e nazionalità. I gruppi più importanti sono otto, i più numerosi rumeni ed albanesi, di conseguenza è difficile poter dialogare con un immigrato od uno zingaro, se non in rare occasioni. Nel mio percorso ne ho incontrato una decina e tutti mi hanno descritto condizioni allucinanti di convivenza ben più degradate di quelle dei loro paesi di provenienza, da noi ritenuti terzo mondo, dimenticando che noi viviamo, senza rendercene conto, una situazione da quarto mondo e non solo in via Stadera. Tre di questi forestieri li ho conosciuti nelle vesti di lavoranti nel padiglione ospedaliero San Paolo. Tra questi un argentino che scontava una lunga pena e nel portare le cibarie faceva il bello ed il cattivo tempo, ma bastava offrirgli una sigaretta per avere le pietanze migliori; un polacco, un giovane molto bello dagli occhi azzurri e profondi, anche lui vivandiere, con fratelli e sorelle sparpagliati in mezza Europa, da anni senza vederne alcuno, condannato per rapina ed apparentemente un bravo ragazzo. Per qualche sigaretta ti lavava la stanza e disinfettava il bagno; sarebbe potuto divenire un ottimo cameriere, ma la lunga permanenza a Poggioreale lo aveva reso inutilmente cattivo e quando per scherzo gli proposi, se una, una volta libero, volesse venire a servizio nella mia villa o presso la casa di qualche mio amico, mi rispose che non poteva, perché appena fuori, per vendicarsi, voleva uccidere tutti gli Italiani. Alì, il marocchino, che pregherà Allah per la mia liberazione, faceva il piantone, una figura tra l’inserviente ed il paramedico alla buona: il suo compito era quello di aiutare i detenuti malati più gravi nelle pulizie personali e di spingere le carrozzine degli invalidi, infatti nel padiglione San Paolo molti detenuti sopravvivono sulla sedia a rotelle. A volte faceva straordinari pagati sotto banco a sigarette, la valuta corrente, lavando a terra nelle celle o portando di nascosto del ghiaccio ai pochi privilegiati proprietari di una borsa termica. Altri due forestieri ho avuto modo di incontrarli nella camera d’attesa per parlare con gli avvocati o i magistrati, un vezzoso locale di pochi metri quadrati, sudicio da fare vergogna con negli angoli gli esiti remoti e solidificati di impellenti bisogni corporali liquidi emessi in tempi lontani; in grado(pura illusione) di contenere per ore decine di persone, mentre la porta con le sbarre veniva sbattuta senza pietà ad ogni entrata ed uscita di una persona dalla stanza, da far tremare le stanche mura, ed una seconda di legno, del tutto inutile se non a togliere il respiro agli sventurati lì rinchiusi e ad aumentare a dismisura caldo ed umidità dell’aria, sbattuta con pari violenza e malcelata rabbia. Il primo, un peruviano dagli occhi a mandorla, fu in mia presenza artefice di un episodio esilarante. L’agente di custodia chiamò un nome apparentemente cinese, tipo Sing Tia Ping e scrutando tra i volti patibolari degli astanti chiaramente di ascendenza spagnola o saracena, stabilì che fosse lui l’interessato e lo condusse dal giudice, il quale cominciò l’interrogatorio e solo dopo un quarto d’ora si accorse dello scambio di persona e fece ritornare il malcapitato in cella, dove fu costretto a sorbirsi i rimbrotti di chi aveva commesso il madornale errore. In un’altra occasione nello stesso luogo fatale ebbi modo di parlare con uno slavo che mi confessò di essere imputato per rapina a mano armata per il solo fatto di essersi trovato nei pressi dell’accaduto. Mi raccontò tutto eccitato di essere stato sottoposto all’identificazione su foto segnaletica senza essere riconosciuto, ma nel confronto all’americana, uno dei presenti alla rapina lo aveva indicato agli agenti, mentre, a suo dire, gli altri due avevano indicato persone diverse. Era naturalmente difeso da un legale d’ufficio, che si era dimenticato persino di presentare istanza al Riesame. Gli ultimi stranieri saranno i cinque cingalesi, vittime di uno scambio di persona che mi accompagneranno mestamente al momento delle mie dimissioni… avvenute come vedremo dopo la mezzanotte e mentre io avevo una casa ed una famiglia pronti ad accogliermi, loro discutevano sul luogo dove avrebbero trascorso la notte ,naturalmente all’addiaccio. Alcuni politici propongono sbrigativamente, per diminuire la pressione nelle carceri di inviare gli stranieri condannati a scontare la pena nei paesi di origine. Mi sembra una idea balzana non degna di uno Stato desideroso di onorare la sua sovranità, ma altre soluzioni vanno cercate con impegno per il sovraffollamento cronico non permette alcun piano di vivibilità ed a pagare sono sempre e soltanto i detenuti. Poggioreale oltre ad essere tra i più degradati penitenziari europei è da tempo crocevia di razze e culture diverse; tra le sue impietose mura si ascoltano e si alternano calorosi idiomi e dialetti diversi, europei ed orientali, un flebile e caricaturale ricordo di una Napoli per secoli indiscussa capitale delle arti e della convivenza, declassata da tempo a malinconica capitale della spazzatura materiale ed umana.
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